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Nella tradizione culturale romana è agevolmente individuabile un "genere" dalle caratteristiche non solo d'assoluta originalità ma anche radicalmente autoctono e tale da trovare soltanto in Roma le ragioni storiche della sua produzione e del suo consumo: la pasquinata. Nella sua storia di durata plurisecolare, dalla fondazione aretiniana sino agli epigoni sette-ottocenteschi, difficilmente si colgono modificazioni rilevanti, sia di statuto specifico che di riferimenti: in questa tradizione istituzionalmente ripetitiva l'esperienza del Sergardi provoca una brusca modificazione della satira "romana", ne fa strumento di polemica intellettuale, e quindi di deformazione in grottesco delle manie e delle abitudini della società romana, nelle sue fondamentali componenti aristocratica e nobiliare. Il punto di vista del Sergardi (uomo di Curia, uno dei più autorevoli quadri dirigenti tra Sei e Settecento) resta tutto all'interno della classe dominante, lo spirito corrosivo che anima le sue Satire non proviene da una esigenza del diverso, di trasformazione dei rapporti sociali: le Satire sono la deformazione in grottesco di un sistema di vita sociale e intellettuale che non solo è quello del Sergardi, e nel quale egli si riconosce, ma è anche l'unico sistema possibile, perché ontologicamente immodificabile, essendo il sistema, di lunga durata per volere divino, della Chiesa romana. E allora la carica aggressiva di queste Satire si trasforma in una sorta d'istinto cannibalesco.